La guerra fra Trump e Twitter: lo scudo contro il filtro

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Ennesimo abuso di potere da parte di un leader illiberale, finalizzato a colpire il nemico e silenziare i media? Troppo semplicistica, come lettura del conflitto apertosi fra Donald Trump e Twitter. Cinico e spregiudicato, scorretto e incoerente, Trump – ma potremmo dire Salvini, Renzi… - ha un naturale effetto polarizzante. Divide il mondo a metà: amici e nemici. E viene ricambiato allo stesso modo. Vale però la pena di resistere al riflesso condizionato che spinge a prendere automaticamente posizione: con o contro Big Donald (contro Big Tech). Ancora una volta, del resto, la sua azione ha un evidente contenuto paradossale: lui, tuittatore-in-capo, minaccia di “chiudere i social”, attaccando il sistema di microblogging trasformato in voce ufficiale del governo? Sotto il profilo legale, Trump suggerisce di togliere lo “scudo” ai social media: la Section 230 del Communications Decency Act, che li protegge dalla responsabilità dei contenuti postati dagli utenti. Semplificando al massimo: Trump accusa i social di volersi trasformare in media tradizionali; per questo li spinge provocatoriamente nella stessa direzione, minacciando di sottoporli alle stesse regole. Casus belli: la scelta di Twitter di sottoporre a fact checking un suo post sulla presunta irregolarità del voto a distanza, accostando alla parola del presidente ulteriori (e più attendibili) fonti. Una rivoluzione copernicana, per i social: proporsi come filtro, come mediatori tra verità e menzogna. Intollerabile, per uno come Trump, che basa la propria forza sull’essere un leader “senza filtro”. E ha già una guerra aperta con i media tradizionali: con le grandi testate liberal - va da sé - e persino con Fox News, accusata - via Twitter - di non sostenerlo a sufficienza. A distanza di poche ore, l’azienda di Jack Dorsey ha “segnalato” per la seconda volta un tweet trumpiano: «Esaltazione della violenza» in riferimento ai fatti di Minneapolis. Seguendo una policy di contrasto all’odio e alle fake news sollecit

Ennesimo abuso di potere da parte di un leader illiberale, finalizzato a colpire il nemico e silenziare i media? Troppo semplicistica, come lettura del conflitto apertosi fra Donald Trump e Twitter.

Cinico e spregiudicato, scorretto e incoerente, Trump – ma potremmo dire Salvini, Renzi… - ha un naturale effetto polarizzante. Divide il mondo a metà: amici e nemici. E viene ricambiato allo stesso modo. Vale però la pena di resistere al riflesso condizionato che spinge a prendere automaticamente posizione: con o contro Big Donald .

Sotto il profilo legale, Trump suggerisce di togliere lo “scudo” ai social media: la Section 230 del Communications Decency Act, che li protegge dalla responsabilità dei contenuti postati dagli utenti. Semplificando al massimo: Trump accusa i social di volersi trasformare in media tradizionali; per questo li spinge provocatoriamente nella stessa direzione, minacciando di sottoporli alle stesse regole.

A distanza di poche ore, l’azienda di Jack Dorsey ha “segnalato” per la seconda volta un tweet trumpiano: «Esaltazione della violenza» in riferimento ai fatti di Minneapolis. Seguendo una policy di contrasto all’odio e alle fake news sollecitata da molti ambienti culturali e politici: promossa, al di qua dell’Oceano, dalla stessa Ue; e inaugurata anche da altri social, che così facendo, tuttavia, cambiano di fatto la propria natura.

Ecco allora il problema. Trump sa chi è, cosa vuole: ogni sua azione lo conferma ai fan e ai detrattori. Ma chi sono, cosa vogliono i cosiddetti social network? Quale ruolo intendono giocare nelle trasformazioni dell’informazione e della democrazia? Non è solo un problema di identità, per i colossi del Web. Riguarda tutti noi.

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