Quello che dobbiamo sapere quando parliamo di smart working | Post di maitre_a_panZer | via econopoly24 econ24 24luglio --- segui Econopoly - Il Sole 24 Ore
Ciò che tutti sanno, ma che si tende a dimenticare, è che la scelta dello Smart Working è derivata dall’esigenza di contrastare la pandemia, non certo da una improvvisa e miracolosa maturazione del nostro mercato del lavoro. Detto altrimenti, milioni di persone sono state chiuse in casa ben sapendo che non potevano davvero lavorare, pure se sarebbero comunque state pagate normalmente.
Ciò non vuol dire che sia un’idea sbagliata. Al contrario: se ben ponderata può dimostrarsi molto utile. Ma significa solo che spacciare lo smart working per la panacea delle economie avanzate è semplicemente una storiella da lockdown. Notate che l’universo rappresentato fa riferimento solo alla popolazione in età di lavoro. Sono quindi esclusi gli anziani che ovviamente sono in parte comprensibilmente digiuni di tecnologia. Sapere che quasi il 40% di questa popolazione in Italia ha competenze basse o inesistenti illumina di una luce nuova la retorica sullo smart working che ha funestato – e continua ancora a funestare – il nostro dibattito pubblico.
Se a ciò si aggiunge che i lavoratori casalinghi sono usualmente indipendenti, con titolo di studio elevato, impiegati per lo più nei comparti dei servizi, informazione e comunicazione, servizi alle imprese e nell’istruzione, ecco che il nostro identikit sugli smart worker si raffina: minoranze qualificate, per le quali “va evidenziato il rischio che il confine tra tempi di lavoro e tempi di vita diventi labile e, dunque, il lavoro risulti invasivo”.
Istat ha stimato anche il grado di fattibilità da remoto delle varie professioni, arrivando alla conclusione che circa 8,2 milioni di persone potrebbero svolgere il proprio lavoro da casa, pari al 35,7% degli occupati. Percentuale curiosamente simile a quella dei lavoratori dotati di competenze informatiche avanzate.
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